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#DAILEGGIAMOICLASSICI: L’Isola del Tesoro

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Il tesoro di Tusitala

Nel 1876 arrivò a Parigi un’americana per seguire un corso di disegno. Si chiamava Fanny Osborne, era stata pioniera nel Far West e cercatrice d’oro nelle terre desolate dell’Alaska. Con sé portò i figli, tre bambini di cui il più piccino morì durante un inverno freddissimo.

A Parigi, Fanny incontrò un giovanotto di ventisei anni (undici meno di lei) il quale provò, per quella donna forte e affascinante, un amore assoluto. Il giovanotto si chiamava Robert Louis Stevenson, era ribelle, tenace e avventuroso. Desiderava fare lo scrittore nonostante la laurea in giurisprudenza e il suo racconto di un viaggio in barca sui fiumi francesi e a dorso d’asino sulle Cevennes gli aveva procurato una certa notorietà.

Stevenson assillò Fanny con un corteggiamento implacabile. Lei, decisa a resistergli, tornò in America. Il giovane scrittore la seguì in un viaggio estenuante durante il quale perse dieci chili, si ricoprì di eczemi e contrasse la tisi. La sua perseveranza fu premiata: Fanny lo sposò nel 1880 dopo il divorzio dal marito.

Robert Louis Stevenson
Fanny Osborne

Stevenson si occupava dei figli di sua moglie raccontando storie. Un giorno propose al maggiore, il tredicenne Lloyd, di disegnare la mappa di un tesoro. Un semplice gioco al quale partecipò anche il padre dello scrittore, un gioco che divenne la fonte di uno dei più famosi e amati libri d’avventura: L’isola del tesoro. La mappa infatti si arricchì di luoghi e poi di personaggi e, dai personaggi, nacque la storia del romanzo più celebrato di Stevenson. Non ci volle molto: il libro divenne quasi subito un caso letterario e fu tradotto in parecchie lingue. E non solo i ragazzi, ma specialmente gli adulti lo apprezzarono anche se Henry James, scrittore di chiara fama, stroncò il racconto, salvo poi ricredersi. Molto citata è la risposta con cui Stevenson replicò alla stroncatura:

Non è mai esistito un bambino (fatta eccezione per il signor Henry James) che non abbia cercato oro, non sia stato pirata o capitano di soldati o bandito fra i monti. Che non abbia mai combattuto battaglie, non sia naufragato o non sia stato prigioniero e non abbia bagnato di sangue le sue piccole mani o che bravamente non si sia ritirato da una battaglia perduta e che infine, con manifesto orgoglio, non abbia protetto l’innocenza e la bellezza”.
Risposta che nascondeva un dubbio: avrebbero apprezzato il libro i giovani lettori all’epoca divenuti più smaliziati?

Il dubbio si risolse perché il romanzo è diventato un classico e James in seguito si ricredette e fu sempre amico di Stevenson con il quale intrattenne un’affettuosa corrispondenza.

Nel 1888 Stevenson noleggiò un veliero e salpò per i mari del Sud, forse per sfuggire al clima inglese, foriero di malattie mortali come la tubercolosi da cui era affetto, forse perché non gli bastavano più le avventure di carta. Approdò a Samoa dove acquistò dei terreni e si fece costruire una casa di legno. Difese gli indigeni dai bianchi che li sfruttavano e li sottomettevano ed essi lo adottarono e gli diedero un nuovo nome: Tusitala ovvero Narratore di Storie.

Stevenson morì senza sapere che, sotto ai suoi terreni, giaceva per davvero un enorme tesoro. Non era d’oro e di gioielli come quello dei pirati, ma consisteva in un mare di petrolio.

A Samoa, la casa di legno è diventata un museo e chi ha la fortuna di recarsi laggiù a visitarla può ancora respirare il vento che gonfiava le vele degli scorridori del mare spingendo le navi verso avventure meravigliose.

E, negli immensi oceani della letteratura, l’Hispaniola ancora naviga con le vele gonfie di quella brezza avventurosa che spinge i nostri sogni e i nostri desideri alla ricerca dell’oro. Come ragazzi, come il giovane Jim Hawkins seguiamo le indicazioni di una mappa in cui le rosse croci non solo indicano il luogo dove scavare, ma contrassegnano le sepolture innumerevoli come conseguenza dell’avidità e della ferocia.

Aveva ragione Stevenson: non c’è bambina o bambino che non abbia almeno una volta desiderato di trovare il tesoro, non per la ricchezza, ma per quel tremore impagabile che si diffonde fin dentro le ossa nell’avventura e nella scoperta. Se è vero che il mondo si è ristretto e i luoghi misteriosi si sono ritirati nell’immaginario, è pur vero che racconti come questo ce li restituiscono. Ma noi, tutti molto anziani anche nell’infanzia perché privati dei sogni, queste restituzioni ci rendono nostalgici e malinconici: l’Hispaniola veleggia ormai fuori dalla nostra portata.

L’Isola dello Scheletro è un luogo malsano, paludoso, divorato dai frangenti e dalla paura. Jim, il ragazzo protagonista, non ci tornerebbe neppure tirato dai buoi. Non rimpiange le battaglie, la sferza adrenalinica delle imprese azzardate, meno che mai Long John Silver e il suo pappagallo che lo tormenta ancora negli incubi notturni con il suo vociare orrendo: pezzi da otto! Pezzi da otto!

Il pirata monco si aggira invitto sostenendosi sulla gruccia. Egli non è stato punito, è riuscito a fuggire sottraendo dalla nave un sacco di ghinee e ha ritrovato sua moglie. Sta anche qui il genio di Stevenson: Jim si salva, diventa ricco, ma si salva anche il suo alter ego, il personaggio ambiguo, l’impostore trasformista che non si può collocare nella lista manichea dei buoni e cattivi, ma solo nel mare omerico dove naviga per sempre anche Ulisse l’ingannatore, l’astuto, l’opportunista. Anche per questo, L’isola del tesoro assume l’identità di una storia epica, paradigmatica perfino quasi insuperabile.

Proporre il racconto alle generazioni attuali significa immergere i lettori in un passato rutilante, violento e tempestoso dove la lealtà si contrappone all’inganno, la religione alla superstizione, il coraggio al tradimento, la forza all’astuzia. Qui le emozioni e i sentimenti risultano primitivi e spesso incontrollati come le forze della natura. Natura nella quale l’uomo si sente piccolo e sperduto, ma non creatura al di fuori di essa. Significa soddisfare quel desiderio di scoperta che non è mai venuto meno neppure nell’epoca della comunicazione globale e della sparizione di qualsiasi territorio inesplorato. L’isola del tesoro è un luogo dell’anima dove prendono vita le più riposte paure, dove ci si mette alla prova e in cui chi ha ben pensato e agito recupera l’oro nascosto.

Qui non si palesano figure femminili, solo uomini spesso ubriachi, violenti, superstiziosi. Né si scorge alcun accenno di desiderio se non quello del lieve riverbero dell’oro dentro la caverna di Ben Gunn, il pirata abbandonato sull’isola dai suoi compagni. Ben riceverà, per l’aiuto prestato (e che aiuto!) la risibile somma di mille sterline, spese in un paio di settimane. Per un senso di giustizia, ci aspetteremmo una ricompensa molto più consistente, ma neppure la giustizia è contemplata nel racconto, solo pura avventura, pura lotta: vincono i più forti, i meglio organizzati. Bene e male sono talmente intrecciati che è impossibile scioglierne i nodi e restituirne l’origine.

Il linguaggio è zeppo di termini tecnici di navigazione, di espressioni gergali ricche di doppi sensi, di ironia: coglierne tutte le sfumature vuol dire maturare come lettori forti, capaci di comprendere un testo a più livelli. A questo si aggiunga la presenza di continui colpi di scena da seguire con grande attenzione in un intreccio narrativo composto da meandri e da variazioni: a volte vincono i pirati, a volte i loro antagonisti, ma ciò che perde i primi è dato dall’ignoranza e dal vizio di bere in modo incontrollato. La contrapposizione tra una morale civile, rappresentata da Jim e dai suoi compagni, e la legge selvaggia dei pirati non è necessariamente un limpido distinguo fra bene e male, ma la lotta fra due mondi inconciliabili dove bontà e cattiveria hanno la stessa radice. La vita sospinge gli uomini verso una sorte o l’altra a seconda di dove sono venuti al mondo e di dove sono stati educati

Non una lettura di facile consumo, quindi, ma un racconto complesso che, pur mettendo alla prova la comprensione, fa sì che si impossibile staccarsene e ci si immerga completamente in esso. Romanzi come questo sono l’origine di ogni immaginazione. E l’Hispaniola continua a navigare negli oceani immensi del nostro inconscio.


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